Autori: Taniguchi Jirō e Mōri Jinpachi
Anno di pubblicazione: 1991
Numero di volumi: 1
Edizione consultata: Big Comic Special
Editore: Shōgakukan
L’intera produzione a
fumetti di Taniguchi Jirō (n.1947) può essere grossomodo suddivisa in due macro-aree
tematiche. Il primo gruppo – che potremmo azzardarci a definire “Anima” – riunisce una serie di opere
introspettive, pacate e a tratti poetiche, spesso incentrate sul rapporto
uomo-natura, sul silenzio e sul passato che ritorna. Il secondo gruppo – che
invece potremmo definire “Corpo” –
racchiude il lato oscuro della natura umana, quello legato alla fisicità, alla
crudeltà e alla violenza.
In Occidente, Taniguchi
ha avuto un riscontro più che positivo grazie a un manga intimista come Aruku hito (L’uomo che cammina, 1990),
un’opera non a caso definita da Giorgio Amitrano come “esempio di una
raffinatezza estetica del silenzio”. Il gruppo “Corpo”, invece, ha faticato a
imporsi in Europa (in particolar modo in Francia e in Italia), probabilmente a
causa di un’immagine ormai cristallizzata dell’autore, sempre più spesso
definito come il poeta che osserva e contempla in rigoroso silenzio. La violenza,
il sangue e l’eros - tanto presenti nelle opere del secondo gruppo - sembrano invece
offrire un ritratto diverso del mangaka,
meno empatico e profondo, ancor meno rassicurante. Eppure non bisogna affatto
dimenticare che in Giappone il nome di Taniguchi è spesso collegato a storie
hard boiled o ambientate nel mondo della boxe. Mi riferisco a titoli come Jikenya kagyō (Trouble is my business,
1979), Ao senshi (Il guerriero blu,
1980) o Knuckle Wars (1988), tutti
titoli sceneggiati da altri autori.
A questa stessa
categoria appartiene anche Benkei in Ney York, pubblicato dal
1991 al 1995 sulle pagine di «Big Comic
Original». Si tratta di una raccolta di sette storie ambientate per lo più
in America (il racconto “Sword Fish”, invece, ha come sfondo la Sicilia, tra i
soliti luoghi comuni, mafia e improbabili nomi di persona) e aventi come
protagonista Benkei, un giapponese che si guadagna da vivere falsificando
quadri d’autore o accettando vendette su commissione. I sette racconti,
sceneggiati da Mōri Jinpachi (1958-2015), convincono, però, soltanto a metà,
forse perché troppo brevi e prevedibili per riuscire ad appassionare il lettore.
In più, si ha come l’impressione di avere a che fare con “maschere” piuttosto
che con personaggi - seppur disegnati - dotati di una propria anima. L’unica
eccezione è rappresentata da “Haggis”, una storia che sembra una riscrittura
moderna del mito di Tereo, il re di Tracia a cui, per vendetta, era stata fatta
mangiare la carne del proprio figlio.
Dal canto suo, Taniguchi
cerca di imporsi sulla sceneggiatura con uno stile asciutto e algido, poco
espressivo nei volti ma attento ai dettagli, alle citazioni (viene omaggiato Shining e la famosa scena della porta
sfondata a colpi d’accetta) e alla composizione delle tavole. Il chiaroscuro e
i contrasti cromatici evocano alla perfezione le atmosfere da film noir d’altri
tempi, rendendo al contempo realistici gli scenari metropolitani newyorkesi.
A conti i fatti, però, Benkei
in New York non spicca di certo nella produzione di Taniguchi, non convince e non appassiona del
tutto, si lascia leggere senza restare però impresso nella memoria. Nonostante
il successo all’estero di Taniguchi abbia spinto molte case editrici giapponesi
a ristampare i suoi vecchi titoli, Benkei in New York non è mai
riapparso nelle librerie. A oggi, si ricorda un’unica edizione in formato
monografico pubblicata, ormai vent’anni fa, da Shōgakukan.
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