Una gru infreddolita
di
Maria Teresa Orsi
Il
«mondo dei fiori e dei salici», inteso nel significato più ampio e generale,
che si riferisce sia alle cortigiane dei famosi quartieri di divertimento di
epoca Tokugawa (1603-1867), sia alle più moderne geisha, ha sempre rivestito un
ruolo di primo piano all’interno della cultura giapponese. Durante il periodo Tokugawa
i «quartieri di piacere» e soprattutto lo Yoshiwara di Edo (Tokyo), nel loro
momento di massimo splendore, hanno avuto un impatto pervasivo e profondo su ogni
aspetto della vita dell’epoca, dal linguaggio alle relazioni umane, al gusto,
all’estetica, ai modelli di comportamento e di relazioni sociali, diventando
fonte inesauribile per quelli che sono ritenuti i capolavori della letteratura,
del teatro e delle arti figurative del tempo. La narrativa che esaltava il
fascino delle cortigiane e delle geisha aveva senza dubbio una dimensione erotica,
ma la fonte di maggiore interesse derivava dalle dinamiche dei rapporti fra
uomo e donna al di fuori dei tradizionali schemi della famiglia e del
matrimonio, oltre che da ritratti di donne la cui identità non si manifestava
nel ruolo ortodosso di madre e moglie, e delle quali venivano idealizzati la personalità, l’eleganza, lo spirito e, al
limite, un certo grado di indipendenza quanto meno sul piano affettivo. Nel
corso del Novecento, nonostante i profondi e inevitabili cambiamenti e lo
scontro fra la percezione moderna dei quartieri di divertimento, ben più
realistica e socialmente orientata, e la tradizionale versione estetizzante, il
fascino di questo ambiente è rimasto ben vivo e presente nelle opere di molti
fra i maggiori scrittori, da Nagai Kafū a Kawabata Yasunari, e se la loro
lettura potrebbe sembrare troppo nostalgica e di parte, non sono mancate scrittrici di grande livello
che hanno scelto il demimonde come
soggetto dei loro romanzi, da Higuchi Ichiyō alla fine dell’Ottocento, a Uno
Chiyo e Kōda Aya negli anni Cinquanta, per
arrivare, in tempi vicini a noi, a Setouchi
Jakuchō; anche le biografie, più o meno attendibili, e le autobiografie di geisha famose, prima
fra tutte Iwasaki Mineko (n. 1949) hanno dato un contributo sostanzioso all’argomento,
giustificando il perdurante interesse da parte del pubblico dei lettori. E non
poteva certo mancare in questo quadro la presenza del manga, che ci ha regalato,
negli ultimi anni, opere come Kurenai
niou (Lo splendore del rosso, 2003-2007), dove la più apprezzata autrice di
josei manga, Yamato Waki, mette il
suo talento al servizio di una storia ispirata proprio alla vita di Iwasaki
Mineko, nella quale, in sintonia con le scelte che hanno caratterizzato la
produzione dell’autrice, un romanticismo sapientemente calcolato si fonde con
l’implicito elogio della geisha di Kyoto, intesa come icona di una tradizione artistica
ed estetica ineguagliabile. Viceversa, molto più incisiva e tagliente, anche
nella veste grafica, appare la proposta di Anno Moyoko, Sakuran (2001-2003), che già nel titolo anticipa i contenuti,
fondendo, foneticamente e semanticamente, i termini sakura (fiore di ciliegio), oiran
(cortigiana di alto rango) e sakuran
(delirio).
In
questo contesto si inserisce Itezuru (Una gru infreddolita,
1974-1980), opera di Kamimura Kazuo, uno dei maggiori esponenti del manga
d’autore, che oggi è possibile leggere anche nella bella versione in lingua
italiana fornita da Paolo la Marca.
Scritto negli anni della piena
maturità dell’autore, che coincidevano con la definitiva affermazione del manga
inteso non come prodotto di puro consumo, ma apprezzabile anche sul piano
assiologico, si presenta come uno degli esiti più equilibrati e coinvolgenti. Il
nome di Kamimura, quanto meno in Europa, è in buona misura legato al lungo Shurayuki hime (Lady Snowblood del 1972,
a sua volta pubblicato in Italia nel
2014, sempre a cura di Paolo La Marca), grazie anche all’implicito omaggio che Quentin Tarantino
avrebbe rivolto a quest’opera con il suo Kill
Bill; si tratta un dramma storico
ambientato nel Giappone di fine Ottocento, uno dei momenti più drammatici della
storia giapponese e, di conseguenza, suscettibile di diventare fonte di ispirazione
inesauribile per letteratura, cinema e manga, e il cui potere di attrazione
sembra non essere minimamente scalfito dal passare del tempo. Se già in questo
manga si può avvertire il tratto inconfondibile della penna di Kamimura nelle
scene di massa e nel ritratto della bellissima protagonista, implacabile nella
sua vendetta, ma anche pronta al sacrificio (temi cari a una certa letteratura
popolare giapponese), resta il fatto che l’autore avrebbe dato il meglio di sé
in altre opere più o meno scritte nello stesso periodo, che portano sulla scena
l’ambiente estetizzante e decadente degli intellettuali dei primi decenni del
Novecento, come Kikuzaka Hoteru (Hotel
Kikuzaka, 1983-84), o l’atmosfera degli anni Settanta che, in Giappone come in
Europa, assistevano a vistosi cambiamenti nei costumi e nelle convenzioni
sociali. Da questo punto di vista Dōsei Jidai
(L’età della convivenza, 1973) ha rappresentato un prodotto di straordinario
impatto non solo dal punto di vista letterario ma anche sociale: in un Giappone
ancora ancorato all’ideologia della famiglia, la proposta della convivenza, non
come tappa in vista di un matrimonio, ma fine a se stessa e non necessariamente
destinata a una conclusione socialmente riconosciuta, aveva un significato
innovativo e anticonvenzionale che le giovani generazioni erano pronte a accettare
e condividere.
Con
Itezuru, Kamimura torna indietro nel
tempo per presentare la storia di una giovane geisha fra gli anni Trenta e
Quaranta, sullo sfondo ben riconoscibile di un Giappone che procede verso la
guerra, in un percorso scandito sia dalle inquadrature (l’ombra dei soldati, i
proclami che incoraggiano alla frugalità, i giovani in uniforme militare, il
reduce dalla Manciuria) sia da espliciti riferimenti inseriti nello spazio
diegetico (…nel sesto anno dell’era Shōwa
scoppiò l’incidente mancese; il sette giugno del quattordicesimo anno dell’era
Shōwa il corpo dei giovani pionieri volontari partì per la Manciuria: in quella
notte di primavera del quindicesimo anno dell’era Shōwa il mare era scuro e
agitato. Era come se volesse lanciare un presagio sul destino che attendeva il
Giappone). Nel seguire il cammino della giovanissima protagonista Tsuru, da
quando, ceduta ad una casa di geisha (okiya)
al prezzo di un sacco di riso, è una semplice apprendista, fino al suo esordio
e al suo successo come ricercatissima geisha, l’autore mantiene un
atteggiamento di sobrio distacco, senza indulgere in una aprioristica critica
del mondo che descrive e senza cedere al fascino di un lacrimevole
coinvolgimento: consapevole dell’importanza del denaro e del fatto che il suo
futuro come «splendida geisha» le potrà garantire
privilegi che altrimenti le sarebbero negati,
Tsuru è ben lontana dallo stereotipo dell’orfana perseguitata caro a un certo cliché sentimentale e ottocentesco: allo
stesso modo, il ritratto della padrona della okiya, calcolatrice, avida e inflessibile con le sue sottoposte,
non ha la dimensione a tutto tondo della perfida Mme Thenardier di Victor Hugo.
Viceversa un’ottica cinica e amara trasforma, nel giro di poche inquadrature, il
personaggio del declamatore di kamishibai,
che a prima vista potrebbe essere identificato con un generoso benefattore, in
uno dei personaggi più meschini e detestabili. Se il carattere di Tsuru,
volitiva, orgogliosa e consapevole del proprio fascino, può fare di lei una
lontana parente delle oiran (cortigiana
di alto rango) celebrate nei romanzi
di epoca Tokugawa, non manca, nel capitolo XIV, un confuso sentimento di
simpatia da parte della geisha, elegante e richiesta da clienti facoltosi, nei
confronti della moglie del carpentiere, umile e dimessa, una sorta di
solidarietà femminile che potrebbe ricordare certi drammi di Chikamatsu
Monzaemon. Del resto, Kamimura non esita a disseminare nel suo manga altri richiami
letterari, a cominciare dal titolo, itezuru,
un riferimento stagionale preso in prestito dal lessico degli haiku, fino alla consistente presenza nel
testo dei romanzi di Higuchi Ichiyō, ora citati apertamente, ora riconoscibili
in alcune scene (gli scontri di Tsuru con i ragazzini del quartiere); o ancora
la figura del pittore (forse ispirata a Takehisa Yumeji?), che nella sua ricerca
di un modello perfetto per il suo quadro, ignora del tutto l’aspetto umano
della donna per farne solo un oggetto, non necessariamente di soddisfazione
sessuale, ma di ambizioni artistiche. E l’associazione di questi episodi con personaggi
come Yumeji o Ichiyō può essere giustificata quando si ricorda che proprio a
queste due importanti figure del mondo letterario e artistico Kamimura ha
dedicato almeno due dei suoi manga più belli, Kikuzaka Hoteru e Ichiyō uranisshi
(Il diario segreto di Ichiyō, 1984). L’autore non trascura neppure un famoso
fatto di cronaca: la presenza del cane Hachikō, modello di fedeltà assoluta al
suo padrone, da tutti elogiato, ma verso il quale Tsuru non sembra mostrare
alcuna considerazione («dopotutto è un cane e non sa fare altro che aspettare»…).
Nella
veste italiana Itezuru viene abbellito
da una sobria copertina che rinuncia
alla policromia vistosa di Lady Snowblood
per privilegiare lo sfondo di un delicato colore pastello dove si delinea una
delle immagini più significative di tutto il racconto, che giustifica sia il titolo
sia il soprannome attribuito alla protagonista. Il disegno di Kamimura è una
conferma del suo talento, non solo per ciò che riguarda gli ormai fin troppo
famosi ritratti femminili dall’ovale perfetto e dai grandi occhi obliqui, ma
anche per la capacità di sottolineare
ogni minima variazione
nell’espressione dei volti, di creare personaggi comprimari, ora patetici, più
spesso grotteschi. Colpisce per la sua efficacia grafica anche il paesaggio
urbano che va dalle tradizionali case delle geisha con finestre a grata e tetti
di tegole, alle automobili parcheggiate non lontano dall’ingresso, quasi a
voler segnalare la presenza di ricchi
clienti, alle immagini a tutto campo di
una Tokyo ancora popolata da basse case a due piani sulle quali domina solo la
torre di avvistamento per gli incendi, ai malinconici terrapieni della ferrovia.
Infine, anche la cura nella rappresentazione dei minimi particolari - dalla lunga
pipa sottile (kiseru), inseparabile
dall’immagine della geisha, agli ombrelli di carta di riso, alle scope di saggina,
fino alla minuziosa descrizione dell’abbigliamento dei personaggi -
contribuisce a ricreare in modo suggestivo l’atmosfera della Tokyo degli anni Trenta
e di un ambiente oggi profondamente e irrimediabilmente trasformato,
topograficamente e culturalmente. La traduzione italiana, limpida e
gradevolissima, attenta e mai banale, pur costretta nelle griglie dei fukidashi, si sovrappone agevolmente
all’originale, rispettandone sfumature e cadenze, e solo quando il linguaggio
si fa troppo criptico nel suo ricorrere ad un gergo strettamente legato al
mondo dei fiori e dei salici, inserisce brevi, efficaci note
alla base della pagina. Infine, in chiusura, la lettera della figlia diKamimura costituisce una testimonianza diretta e preziosa, mentre il breve
saggio esplicativo, Bellezza e tristezza, a cura di Paolo La Marca, offre,
anche a un lettore non particolarmente familiare con la cultura giapponese
degli anni Trenta, la possibilità di apprezzare al meglio, al di là del puro
godimento offerto dalle immagini e dallo scorrere dell’intreccio, una delle
opere più interessanti di un artista di grande personalità.
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Profilo biografico
Maria Teresa Orsi ha
insegnato dal 1975 al 1984 Letteratura giapponese moderna e contemporanea all’Istituto
Universitario Orientale di Napoli. Professore ordinario dal 1981, ha ricoperto
dal 1984 al 2010 la cattedra di Lingua e letteratura giapponese all’Università
di Roma “La Sapienza”. Nel 2012 il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e
della Ricerca le ha conferito il titolo di Professore Emerito. Ha pubblicato
articoli dedicati alla letteratura popolare e al fumetto giapponese ed ha
curato la traduzione e la presentazione al pubblico italiano di testi classici
e moderni: fra gli altri, Racconti
di pioggia e di luna (Marsilio, Venezia, 1988) di Ueda Akinari, Sanshirō (Marsilio,
Venezia, 1990) di Natsume Sōseki, Il
figlio della fortuna (Giunti, Firenze, 1991) di Tsūshima Yūko, Racconti della pioggia di primavera (Marsilio, Venezia, 1992) di Ueda Akinari, I demoni guerrieri (Venezia, Marsilio,
1997) di Ishikawa Jun. Ha curato il volume Fiabe giapponesi (I Millenni, Einaudi, Torino, 1998) e Mishima Romanzi e racconti (I Meridiani, Mondadori, Milano, voll I e II, 2004,
2006). Nel 2012 ha pubblicato la traduzione commentata del Genji monogatari (La
storia di Genji), massimo capolavoro della letteratura classica giapponese. Nel
1991 ha ricevuto il Premio della Fondazione Okano per aver contribuito alla
diffusione della cultura giapponese in Italia. Nel 1994 la traduzione
dell’opera Sotto la foresta di
ciliegi in fiore (Marsilio, Venezia1993) dello scrittore
Sakaguchi Ango ha ottenuto il premio della casa editrice Kōdansha, come la migliore
traduzione in lingua italiana di un'opera giapponese. Nel 2000 è stata
insignita dal Governo giapponese dell’onorificenza dell’Ordine del Sacro
Tesoro. Nel 2002 ha ricevuto il Premio “Antonio Feltrinelli” attribuito
dall’Accademia Nazionale dei Lincei ai cittadini italiani per le Letterature
orientali. (dal sito della casa editrice Aracne)
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Informazioni sull'edizione italiana
Editore: J-Pop (Edizioni BD)
Numero di pagine: 405
ISBN-10: 8868836114
Acquistalo su: Sito J-Pop; Amazon; Ibs; Libreria Universitaria; Mondadori Store
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Informazioni sull'edizione italiana
Editore: J-Pop (Edizioni BD)
Numero di pagine: 405
ISBN-10: 8868836114
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