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venerdì 17 maggio 2013

"Maiko no uta" di Uehara Kimiko





Autore: Uehara Kimiko
Anno di pubblicazione: 1977
Numero di volumi: 4
Edizione consultata: Kōdansha Manga Bunko
Editore: Kōdansha

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, le riviste per ragazzi proponevano con sempre più frequenza manga a tematica sportiva (baseball, karate, calcio, pugilato, wrestling, etc.), mentre le riviste per ragazze (in particolar modo «Māgaretto») iniziavano a presentare anche loro, seppur con qualche riserva, storie ambientate nel mondo dello sport (pallavolo, nuoto, tennis, basket, etc. - Immagine 1 -).


Se si tralasciano, però, alcuni clamorosi successi editoriali (da Atakku N.1 a Sain wa V, fino ad arrivare a Ēsu o nerae!), sono pochi i titoli a tematica sportiva che ancora oggi si ricordano. Al contrario, il balletto classico, inteso sia come disciplina sportiva che artistica, aveva iniziato a monopolizzare le pagine delle riviste e a catturare le attenzioni delle giovani lettrici. La lista di opere particolarmente significative sarebbe troppo lunga, ma vale la pena citarne almeno due: Arabesuku (Arabesque, 1971-75 ) di Yamagishi Ryōko (n.1947) e Suwan (Swan, 1976-81) di Ariyoshi Kyōko (n.1950). È tuttavia impossibile escludere da questa lista Maki no kuchibue (Il fischio di Maki) di Maki Miyako (n.1935), opera del 1960 incentrata sul dramma di un’aspirante ballerina, tra immancabili lacrime e caparbia perseveranza. Grazie a quest’opera si iniziano a delineare i tratti imprescindibili di un ballet manga, quei parametri narrativi che puntualmente vengono riproposti in ogni serie. Insomma, cambiano i personaggi e le ambientazioni, ma la storia rimane sostanzialmente la stessa. Il più delle volte, infatti, la protagonista di un ballet manga è una bambina che si impegna nella danza con dedizione estrema, per pura passione o perché spinta dalla determinazione/imposizione della madre ex-ballerina. Questo  conflittuale rapporto tra madre e figlia anima i plot di molti ballet manga, con le opportune variazioni tra una storia e l’altra (figlie scambiate alla nascita, miracolose agnizioni, etc.). L'altra figura di rilievo è quella della sorella maggiore (o di un fratello più grande) con la quale la protagonista entra sin da subito in competizione: da un parte ne ammira la bravura, dall'altra cova gelosia e invidia. Il motivo è palese: le attenzioni della madre non sono mai per lei, ma sono sempre rivolte alla sorella più grande, più brava e, ovviamente, più bella. 
Anche questo Maiko no uta (La canzone di Maiko) di Uehara Kimiko (n.1946) non fa eccezione. Pubblicato a puntate sulla rivista «Chao» dal 1977 al 1981, l’opera si divide in una prima parte (“Da ichi bu”) e in una seconda (“Dai ni bu”). Qualche breve cenno sulla trama è d'obbligo. Maiko e Chiyako sono due bambine nate nello stesso ospedale e nello stesso giorno. Destino vuole che entrambe vengano affidate l’una alla madre dell’altra. Maiko (lett. “fanciulla danzante”) crede di non aver alcun talento nella danza nonostante sia la figlia di una famosa prima ballerina e sorella di un altrettanto talentuoso ballerino, mentre Chiyako cresce covando ambizioni e sogni di successo che le appaiono sempre più lontani. Le avventure del manga ruotano attorno ai diritti di rappresentazione di un famoso quanto leggendario balletto dal titolo “I fiori rossi di Elena”, una storia scritta dal padre di Maiko e coreografata dalla madre. Il sogno della piccola Maiko è di interpretare il ruolo di Elena insieme con il fratello nel ruolo di Narciso. Quando però la madre di Maiko si vede costretta a vendere i diritti di rappresentazione, inizia per la bambina un lento e faticoso percorso per riuscire a interpretare quel ruolo tanto ambito. Riuscirà a portarlo sulle scene con il fratello?
Teoricamente il manga si sarebbe dovuto concludere senza una seconda parte, ma sembra che il finale non avesse raccolto i consensi da parte delle lettrici. Infuriate, avevano spedito in redazione lettere in cui lasciavano trapelare il loro malcontento: “Ho continuato a leggere fino alla fine la storia, rassicurata dal fatto che i manga della sensei Uehara terminano tutti con un lieto fine. Eppure, aveva giurato che avrebbe raccontato la storia fino a quando l’eroina non avesse raggiunto la felicità (…) Ha ucciso Shirō e ha tradito noi lettori!”. Colta da un improvviso rimorso di coscienza, la Uehara si decide a riprendere le avventure di Maiko, traghettandola dal periodo della sua infanzia e quello dell’adolescenza. La seconda parte, ahimè, è un concentrato di avvenimenti illogici che si susseguono senza sosta, con il solo scopo di stupire (inutilmente) il lettore. Il balletto classico diventa soltanto un pretesto e non più il fulcro della storia: a Maiko ne succedono di tutti i colori (si trasferisce in città diverse un’infinità di volte, si scopre innamorata ora di Ryō ora di Natsuki, viene rapita e imbarcata in una nave, perde la memoria…) ed entrano in scena nuovi e forse troppi co-protagonisti (un personaggio en travesti, un misterioso ballerino, una perfida ragazza-madre, etc...). Promossa la prima parte, bocciata la seconda.
Quale sarebbe il punto di forza di questo manga? Sicuramente lo stile di disegno. Uehara Kimiko, infatti, è uno dei nomi più popolari nel variegato mondo dello shōjo manga tra gli anni Settanta/Ottanta, idolatrata dalle sue giovani lettrici per due motivi: per gli scontati e rassicuranti happy end e per il suo stile floreale, stucchevole e lezioso. L’estetica delle sue protagoniste rispecchia l’iconografica “classica” da personaggio femminile di uno shōjo manga: occhi dalla grandezza ipertrofica, stelle e luccichii all'interno delle pupille (hitomi no naka no hoshi), cura maniacale per le acconciature e gli abiti. Se tutto ciò che volevano le lettrici era soltanto un lieto fine, la Uehara era pronta ad accontentarle. Le prime pagine del manga si aprono con queste parole: “Il brutto anatroccolo si era trasformato in un cigno bianco anche dopo aver superato un rigido inverno. Eppure, cosa dovrà mai fare un brutto anatroccolo che non riesce a trasformarsi in un cigno bianco nonostante abbia superato innumerevoli inverni?” e si conclude, come da copione, con la trasformazione del brutto anatroccolo in uno splendido cigno bianco. All’s well that ends well.


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