Autore: Uehara Kimiko
Anno di pubblicazione: 1977
Numero di volumi: 4
Edizione consultata: Kōdansha Manga Bunko
Editore: Kōdansha
A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, le riviste per ragazzi
proponevano con sempre più frequenza manga a tematica sportiva (baseball, karate, calcio, pugilato,
wrestling, etc.), mentre le riviste per ragazze (in particolar modo «Māgaretto») iniziavano a presentare anche loro, seppur con qualche riserva, storie ambientate nel mondo dello sport (pallavolo, nuoto, tennis,
basket, etc. - Immagine 1 -).
Se si tralasciano, però, alcuni clamorosi
successi editoriali (da Atakku N.1 a Sain wa V, fino ad arrivare a Ēsu o nerae!), sono pochi i titoli a
tematica sportiva che ancora oggi si ricordano. Al contrario, il balletto
classico, inteso sia come disciplina sportiva che artistica, aveva iniziato a
monopolizzare le pagine delle riviste e a catturare le attenzioni delle giovani
lettrici. La lista di opere particolarmente significative sarebbe troppo lunga,
ma vale la pena citarne almeno due: Arabesuku
(Arabesque, 1971-75 ) di Yamagishi Ryōko (n.1947) e Suwan (Swan, 1976-81) di Ariyoshi Kyōko (n.1950). È tuttavia
impossibile escludere da questa lista Maki
no kuchibue (Il fischio di Maki) di Maki Miyako (n.1935), opera del
1960 incentrata sul dramma di un’aspirante ballerina, tra immancabili lacrime e
caparbia perseveranza. Grazie a quest’opera si iniziano a delineare i tratti
imprescindibili di un ballet manga, quei
parametri narrativi che puntualmente vengono riproposti in ogni serie. Insomma,
cambiano i personaggi e le ambientazioni, ma la storia rimane sostanzialmente la
stessa. Il più delle volte, infatti, la protagonista di un ballet manga è una bambina che si impegna nella danza con dedizione
estrema, per pura passione o perché spinta dalla determinazione/imposizione della
madre ex-ballerina. Questo conflittuale rapporto
tra madre e figlia anima i plot di molti ballet
manga, con le opportune variazioni tra una storia e l’altra (figlie scambiate
alla nascita, miracolose agnizioni, etc.). L'altra figura di rilievo è quella della sorella maggiore (o di un fratello più grande) con la quale la
protagonista entra sin da subito in competizione: da un parte ne ammira la
bravura, dall'altra cova gelosia e invidia. Il motivo è palese: le attenzioni
della madre non sono mai per lei, ma sono sempre rivolte alla sorella più grande,
più brava e, ovviamente, più bella.
Anche questo Maiko no uta (La canzone di Maiko)
di Uehara Kimiko (n.1946) non fa eccezione. Pubblicato a puntate sulla rivista
«Chao» dal 1977 al 1981, l’opera si
divide in una prima parte (“Da ichi bu”)
e in una seconda (“Dai ni bu”). Qualche breve cenno sulla trama è d'obbligo. Maiko
e Chiyako sono due bambine nate nello stesso ospedale e nello stesso giorno. Destino
vuole che entrambe vengano affidate l’una alla madre dell’altra. Maiko (lett. “fanciulla
danzante”) crede di non aver alcun talento nella danza nonostante sia la figlia di una famosa prima ballerina e sorella di
un altrettanto talentuoso ballerino, mentre Chiyako cresce covando ambizioni e
sogni di successo che le appaiono sempre più lontani. Le avventure del manga
ruotano attorno ai diritti di rappresentazione di un famoso quanto leggendario balletto
dal titolo “I fiori rossi di Elena”, una storia scritta dal padre di Maiko e
coreografata dalla madre. Il sogno della piccola Maiko è di interpretare il
ruolo di Elena insieme con il fratello nel ruolo di Narciso. Quando però la
madre di Maiko si vede costretta a vendere i diritti di rappresentazione,
inizia per la bambina un lento e faticoso percorso per riuscire a interpretare quel
ruolo tanto ambito. Riuscirà a portarlo sulle scene con il fratello?
Teoricamente il manga si sarebbe dovuto concludere senza una seconda parte, ma sembra che il finale non avesse raccolto i consensi da parte delle lettrici. Infuriate, avevano spedito in redazione lettere in cui lasciavano trapelare il loro malcontento: “Ho
continuato a leggere fino alla fine la storia, rassicurata dal fatto che i
manga della sensei Uehara terminano tutti con un lieto fine. Eppure, aveva
giurato che avrebbe raccontato la storia fino a quando l’eroina non avesse
raggiunto la felicità (…) Ha ucciso Shirō e ha tradito noi lettori!”. Colta
da un improvviso rimorso di coscienza, la Uehara si decide a riprendere le
avventure di Maiko, traghettandola dal periodo della sua infanzia e quello dell’adolescenza.
La seconda parte, ahimè, è un concentrato di avvenimenti illogici che si
susseguono senza sosta, con il solo scopo di stupire (inutilmente) il lettore.
Il balletto classico diventa soltanto un pretesto e non più il fulcro della storia: a
Maiko ne succedono di tutti i colori (si trasferisce in città diverse un’infinità
di volte, si scopre innamorata ora di Ryō ora di Natsuki, viene rapita e
imbarcata in una nave, perde la memoria…) ed entrano in scena nuovi e forse
troppi co-protagonisti (un personaggio en travesti, un misterioso ballerino,
una perfida ragazza-madre, etc...). Promossa la prima parte, bocciata la
seconda.
Quale sarebbe il punto
di forza di questo manga? Sicuramente lo stile di disegno. Uehara Kimiko,
infatti, è uno dei nomi più popolari nel variegato mondo dello shōjo manga tra gli anni
Settanta/Ottanta, idolatrata dalle sue giovani lettrici per due motivi: per gli
scontati e rassicuranti happy end e per il suo stile floreale, stucchevole e
lezioso. L’estetica delle sue protagoniste rispecchia l’iconografica “classica”
da personaggio femminile di uno shōjo
manga: occhi dalla grandezza ipertrofica, stelle e luccichii all'interno delle
pupille (hitomi no naka no hoshi),
cura maniacale per le acconciature e gli abiti. Se tutto ciò che volevano le lettrici era soltanto un lieto fine, la Uehara era pronta ad accontentarle. Le
prime pagine del manga si aprono con queste parole: “Il brutto anatroccolo si era trasformato in un cigno bianco anche dopo
aver superato un rigido inverno. Eppure, cosa dovrà mai fare un brutto
anatroccolo che non riesce a trasformarsi in un cigno bianco nonostante abbia
superato innumerevoli inverni?” e si conclude, come da copione, con la
trasformazione del brutto anatroccolo in uno splendido cigno bianco. All’s well
that ends well.



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