Autore: Uchida Shungiku
Anno di pubblicazione: 1986
Numero di volumi: 1
Edizione consultata: Bunshun bunko
Editore: Bungei Shunjū
Sin dal suo primo numero, la rivista «Garo» (1964-2002) ha sempre fatto parlare di sé. Eccessiva, violenta, troppo intellettuale, eticamente scorretta, sperimentale, visionaria: in poche parole, l’esatto contrario di una rivista di manga mainstream. Quando inizia la pubblicazione di Kamui-den (La leggenda di Kamui, 1964-71) per mano di Shirato Sanpei (n.1932), gli studenti universitari tornano a interessarsi al fumetto (uno svago pensato in quegli anni solo per un pubblico di bambini e adolescenti) ed eleggono Kamui a simbolo della loro contestazione: «Garo» andava sfoggiata, esibita con orgoglio. Se già il gekiga aveva aperto nuove strade rivolgendosi a un pubblico di soli adulti, l’operato di «Garo» non aveva fatto altro che cementare lo stesso impegno nel tentativo di recepire le nuove istanze e dar voce ai nuovi autori. A fornire un contributo fondamentale alla rivista ci aveva pensato il suo fondatore, Nagai Katsuichi (1921-1996), che per primo aveva permesso ad artisti come Tsuge Yoshiharu (n.1937), Nagashima Shinji (1937-2005), Hayashi Seiichi (n.1945) e Takita Yū (1931-1990) di dar libero sfogo al proprio estro creativo senza alcun tipo di restrizioni.
Col tempo, però, «Garo» inizia a smarrire la propria identità, proponendo, tra gli anni Ottanta e Novanta, autori che si distinguevano più per l’efferatezza e la morbosità delle storie che non per la carica “contestatrice” che l’aveva sempre contraddistinta. Certo è che il “marchio” di «Garo» di “anti-rivista” non si è perduto strada facendo, anzi, le aberrazioni e le violenze di Maruo Suehiro (n.1956), Hisauchi Michio (n.1951) e Hanawa Kazuichi (n.1947) sono ancora lì a ricordarcelo. Eppure, al contempo, sono emerse nuove voci – soprattutto di donne – che facendo leva su un disegno gradevole e mai volgare sono riuscite ad accaparrarsi una larga fetta di pubblico, facendo avvicinare a «Garo» anche persone che un tempo non si sarebbero mai spinte all’acquisto della rivista. Tra questi nomi, forse i più importanti sono quelli di Yamada Murasaki (1948-2009), Sugiura Hinako (1958-2005), Uchida Shungiku (n.1959), Tomozawa Mimiyo (n.1966) e Sakurazawa Erika (n.1963).
Col tempo, però, «Garo» inizia a smarrire la propria identità, proponendo, tra gli anni Ottanta e Novanta, autori che si distinguevano più per l’efferatezza e la morbosità delle storie che non per la carica “contestatrice” che l’aveva sempre contraddistinta. Certo è che il “marchio” di «Garo» di “anti-rivista” non si è perduto strada facendo, anzi, le aberrazioni e le violenze di Maruo Suehiro (n.1956), Hisauchi Michio (n.1951) e Hanawa Kazuichi (n.1947) sono ancora lì a ricordarcelo. Eppure, al contempo, sono emerse nuove voci – soprattutto di donne – che facendo leva su un disegno gradevole e mai volgare sono riuscite ad accaparrarsi una larga fetta di pubblico, facendo avvicinare a «Garo» anche persone che un tempo non si sarebbero mai spinte all’acquisto della rivista. Tra questi nomi, forse i più importanti sono quelli di Yamada Murasaki (1948-2009), Sugiura Hinako (1958-2005), Uchida Shungiku (n.1959), Tomozawa Mimiyo (n.1966) e Sakurazawa Erika (n.1963).
Uchida Shungiku inizia la sua collaborazione con «Garo» verso la metà degli anni Ottanta, raggiungendo la popolarità nel 1986 con Minami-kun no koibito (La fidanzata di Minami), una serie oggetto di tre diverse trasposizioni per il piccolo schermo (terebi drama) nel 1990, nel 1994 e nel 2004. Un manga, quindi, che si è prestato benissimo a una commercializzazione su larga scala, a differenza degli altri titoli di nicchia proposti su «Garo»: se si esclude, infatti, il caso di Kamui-den – e la serie animata pensata, però, per un pubblico adolescente – sono pochissimi i titoli adattati in anime o serie televisive, il che fa pensare ancora una volta alla specificità di queste opere, più da mercato dell’home video che non da reti generaliste. Il fatto, però, che Minami-kun no koibito si prestasse a diverse interpretazioni e rimaneggiamenti ha di fatto giocato a suo favore, sancendone la popolarità.
La fidanzata di Minami racconta la storia di Chiyomi, una liceale che improvvisamente si ritrova rimpicciolita, del tutto simile a una bambola di 16 centimetri. Non è certo un’idea originale quella di narrare storie di personaggi di lillipuziana memoria: la letteratura, il cinema e il fumetto hanno infatti basato una parte della loro fortuna anche in questo genere di storie. Eppure, la serie della Uchida ha qualcosa di nuovo, di speciale e allo stesso tempo ordinario, nonostante prenda il via da un dato irrazionale (il rimpicciolimento) che l’autrice non tenta minimamente di spiegare al lettore. Chiyomi, che tutti credono sia scappata di casa, vive invece dal suo fidanzato Minami: lui le cuce i vestiti, le cucina mini-porzioni di riso e di onigiri, la porta in giro nel taschino della sua camicia, le costruisce una casa in miniatura con tanto di lettino e wc, le taglia i capelli. I due vivono insieme come una coppia, consci però di non potersi comportare come tali: non possono baciarsi, non riescono a fare l’amore, non possono camminare mano nella mano o fare un viaggio. Nonostante le varie difficoltà (la dipendenza di Chiyomi, incapace di fare qualsiasi cosa senza Minami), i due si concedono un viaggio alle terme che si conclude con un triste e inaspettato finale.
La fidanzata di Minami racconta la storia di Chiyomi, una liceale che improvvisamente si ritrova rimpicciolita, del tutto simile a una bambola di 16 centimetri. Non è certo un’idea originale quella di narrare storie di personaggi di lillipuziana memoria: la letteratura, il cinema e il fumetto hanno infatti basato una parte della loro fortuna anche in questo genere di storie. Eppure, la serie della Uchida ha qualcosa di nuovo, di speciale e allo stesso tempo ordinario, nonostante prenda il via da un dato irrazionale (il rimpicciolimento) che l’autrice non tenta minimamente di spiegare al lettore. Chiyomi, che tutti credono sia scappata di casa, vive invece dal suo fidanzato Minami: lui le cuce i vestiti, le cucina mini-porzioni di riso e di onigiri, la porta in giro nel taschino della sua camicia, le costruisce una casa in miniatura con tanto di lettino e wc, le taglia i capelli. I due vivono insieme come una coppia, consci però di non potersi comportare come tali: non possono baciarsi, non riescono a fare l’amore, non possono camminare mano nella mano o fare un viaggio. Nonostante le varie difficoltà (la dipendenza di Chiyomi, incapace di fare qualsiasi cosa senza Minami), i due si concedono un viaggio alle terme che si conclude con un triste e inaspettato finale.
Il manga si presta a una duplice interpretazione, una più superficiale, l’altra, invece, che tiene conto dei trascorsi dell’autrice, con una sovrapposizione tra fiction e realtà. Nella prima interpretazione, Minami-kun no koibito andrebbe valutato come una graziosa commedia incentrata sulla quotidianità di una coppia, tra mille problemi e avventure di ogni tipo. Il tutto condito dalla leggerezza del tratto della Uchida, senza fronzoli e con pochi sfondi, ma finalizzato a mettere in risalto il lato kawaii della storia: la piccola Chiyomi che tenta di impugnare una penna, “carinissima” nel suo yukata cucito a mano da Minami e adorabile anche quando la vediamo sobbalzare all’interno di una borsa mentre Minami se ne va in giro per la città. Nella seconda interpretazione, invece, entrano in gioco altre varianti legate al vissuto dell’autrice: come Chiyomi, anche Uchida Shungiku è scappata di casa ancora adolescente, per fuggire, nel suo caso, dalle continue violenze del patrigno. Le attenzioni di Minami e le sue premure nei confronti di Chiyomi rispecchiano quelle che Uchida affronterà come madre qualche anno dopo, in relazione ai vestiti, all’abitazione e al mangiare minuziosamente tagliuzzato per i suoi bambini. Infine, come sottolinea la stessa autrice, la tragica morte di Chiyomi riporta inconsciamente alla memoria l’aborto da lei subito a sedici anni, quasi una sorta di rielaborazione per una perdita mai dimenticata.



Ciao Paolo, ottimo articolo (in parte ripreso nella tua postfazione al volume pubblicato di recente nella collana Doku, per cui vi faccio i complimenti: la trovata della doppia cover è innovativa e geniale) su un manga che ammetto che non mi ha colpita come speravo, ma a cui riconosco un'ottima idea di base, che in qualche modo verrà sviluppata anni dopo per il bellissimo shounen "Midori Days", seppur in chiave molto più umoristica e leggera. Sarei curiosa di sapere qualcosa sulla trama del sequel, "Minami-kun wa koibito", di cui si parla pochissimo. Cosa sai dirmi al riguardo? Grazie per l'eventuale risposta, e complimenti per il blog e per i tuoi sempre ottimi approfondimenti (ho divorato quelli nell'edizione italiana di Lady Snowblood)! Diana
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