Autore: Fukuhara Hiroko
Anno di pubblicazione: 1974
Numero di volumi: 1
Edizione consultata: Shūeisha bunko
Editore: Shūeisha
Hadashi no Mei (Mei dai piedi scalzi,
1974) è il tipico shōjo
manga che, pur non riservando sorprese inerenti alla sfera narrativa e
grafica, fornisce validi spunti argomentativi. Il nome dell’autrice, Fukuhara
Hiroko - nata il 31 luglio di un anno imprecisato - è pressoché sconosciuto al grande pubblico, ma
discretamente apprezzato dalle lettrici di «Māgaretto» («Margaret») e
ancor di più da quelle di «Shūkan
Sebuntīn» («Weekly Seventeen»), rivista che nel 1974 ospita, non a caso, le
avventure di questo manga. Il target delle potenziali lettrici di «Shūkan Sebuntīn» è leggermente più alto
rispetto non solo a quello di «Margaret»,
ma anche a quello di «Bessatsu shōjo
komikku» e di «Shūkan shōjo furendo»,
abbracciando prettamente un pubblico di liceali. Un dettaglio non troppo
trascurabile se consideriamo, infatti, le tematiche affrontate dalle autrici di
punta della rivista: si pensi a Tsukumo Mutsumi (n.1952), Takeda Kyōko
(n.1940), Suzuki Masako, Inoue Yōko e Kashi Michiyo, tutte autrici (Fukuhara
Hiroko compresa) migrate poi, senza troppi rimpianti, verso i territori dell'office lady manga. Spesso le loro opere
si addentrano nella sfera sessuale, parlando di incesto, di relazioni non troppo
platoniche tra professori e studentesse e di gravidanze inattese. Eppure, nonostante
Hadashi no Mei rifiuti una sessualità
spicciola e gratuita, si colloca in una fase di passaggio rappresentata da un
gruppo di shōjo manga che, pur non
abbandonando le classiche palpitazioni del cuore e le tribolazioni sentimentali,
introduce sottotrame che ammiccano alla sessualità (il lesbismo su tutte) senza
però approfondire l’argomento. Si avverte, quindi, l’esigenza di dar voce a
nuove pulsioni e a trattare nuovi argomenti, ma si palesa l’impossibilità di
staccarsi da un modello di riferimento troppo comodo e già ampiamente
consolidato. Da una parte, ci si affida a una grafica fin troppo classica e
abusata (occhi grandi e lucenti, fiori con funzione prettamente decorativa),
dall’altra, si indugia su tematiche inusuali che vorrebbero evitare (senza
riuscirci del tutto) blocchi morali e false pruderie. Le pagine iniziali di Hadashi no Mei sintetizzano questa
ambivalenza e si servono delle fantasie di una adolescente per tentare di superare uno
stato platonico/immaginativo e approdare a uno stato carnale/sensoriale. Non più
sogni a occhi aperti, quindi, ma pensieri velati da imbarazzo: la protagonista
Mei si innamora di Kidō, leader della squadra di calcio della scuola, e i suoi
pensieri sono per il sudore che imperla il corpo del ragazzo e per il colore
della sua pelle abbronzata dal sole.
A reggere, però, l’intera struttura narrativa non è tanto il sentimento d’amore di Mei nei confronti di Kidō, quanto le avventure dei comprimari di cui Mei è spettatrice. La scena viene catturata dal personaggio di Misaki Kayako, ambigua e longilinea ragazza dal misterioso passato e dalla coppia formata da Takada e Mishima, due ragazze legate da una relazione sentimentale. Come si è già avuto modo di analizzare a proposito di Shiroi heya no futari (Le due nella stanza bianca, 1971) di Yamagishi Ryōko (n.1947)[1], sin dai primi anni Settanta il tema del lesbismo affiora con sempre più frequenza all’interno del fumetto per fanciulle, ripescando un escamotage narrativo molto caro allo «shōjo shōsetsu», il «romanzo per fanciulle» di epoca Taishō. È curioso notare come, ancora una volta, l’omosessualità femminile venga analizzata come fase transitoria nella vita di una adolescente, come un momento di passaggio in cui due anime ferite si uniscono per condividere le proprie sofferenze. È una forma d’amore più vicina alla “sorellanza”, simile a uno stretto legame affettivo nato per sfuggire alla solitudine e alle tristi vicende familiari. Anche in questo manga, la società (inclusa la famiglia) non accetta una relazione di tipo omosessuale e l’epilogo è ineluttabilmente di natura tragica: nel caso di Misaki, la giovane tenta il suicidio con l’amata Maya gettandosi da una scogliera, nel caso di Takada e Mishima, le due si danno la morte con i farmaci.
A reggere, però, l’intera struttura narrativa non è tanto il sentimento d’amore di Mei nei confronti di Kidō, quanto le avventure dei comprimari di cui Mei è spettatrice. La scena viene catturata dal personaggio di Misaki Kayako, ambigua e longilinea ragazza dal misterioso passato e dalla coppia formata da Takada e Mishima, due ragazze legate da una relazione sentimentale. Come si è già avuto modo di analizzare a proposito di Shiroi heya no futari (Le due nella stanza bianca, 1971) di Yamagishi Ryōko (n.1947)[1], sin dai primi anni Settanta il tema del lesbismo affiora con sempre più frequenza all’interno del fumetto per fanciulle, ripescando un escamotage narrativo molto caro allo «shōjo shōsetsu», il «romanzo per fanciulle» di epoca Taishō. È curioso notare come, ancora una volta, l’omosessualità femminile venga analizzata come fase transitoria nella vita di una adolescente, come un momento di passaggio in cui due anime ferite si uniscono per condividere le proprie sofferenze. È una forma d’amore più vicina alla “sorellanza”, simile a uno stretto legame affettivo nato per sfuggire alla solitudine e alle tristi vicende familiari. Anche in questo manga, la società (inclusa la famiglia) non accetta una relazione di tipo omosessuale e l’epilogo è ineluttabilmente di natura tragica: nel caso di Misaki, la giovane tenta il suicidio con l’amata Maya gettandosi da una scogliera, nel caso di Takada e Mishima, le due si danno la morte con i farmaci.
Hadashi
no Mei è un manga che non
brilla certo per l’originalità dell’intreccio narrativo, anzi, con il procedere
della lettura ci si accorge che l’intera struttura non è altro che un reiterarsi
ciclico di espedienti già noti, di avvenimenti che si susseguono senza sosta come
se seguissero un copione già scritto: amori mai confessati, incomprensioni, perfide
ragazze disposte a tutto pur di far breccia nel cuore dell’innamorato, sconcertanti
rivelazioni, agnizioni e vendette d’amore. Tutte storie già lette, con qualche
sbadiglio di troppo e ingenuità narrative che strappano più di un sorriso lì
dove sono richieste lacrime. A ciò, vanno aggiunti i continui monologhi
interiori della protagonista, infarciti di autocommiserazione, rimpianto e
tristezza, ma spesso velati di malinconia: “Di
che colore è un amore perduto? Un amore perduto è del colore dell’acqua. Un
amore perduto ha i colori di quell’arcobaleno che ho visto un giorno di un
passato troppo remoto. Oppure, è del colore delle mie lacrime? (…) La tristezza
si è disciolta e ha formato una piccola pozzanghera nel mio cuore. Le lacrime cadono
in questa pozzanghera e ne increspano la
superficie”.
Per fortuna, il finale apre un raggio di
speranza e, oltre a regalare alle lettrici uno scontato happy end, spiega il
motivo per cui Mei è hadashi, cioè a
piedi nudi: “L’adolescenza è una strada
di campagna che si percorre scalzi. Si calpestano le spine, ci si taglia con le
schegge di vetro (…) Eppure io voglio camminare a piedi nudi. Voglio provare la
sensazione di avere qualcosa sotto ai miei piedi. L’amore di una persona, il
suo affetto, la mia adolescenza, la vita stessa”.
[1] Si veda la recensione del
titolo all’indirizzo:
http://unastanzapienadimanga.blogspot.it/2011/11/shiroi-heya-no-futari-di-yamagishi.html



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