Con “Le interviste” si inaugura una nuova sezione di approfondimento legata al mondo del fumetto giapponese. Accanto alle classiche recensioni, verranno presentate in maniera aperiodica interviste rivolte a mangaka, docenti universitari ed editori.
La prima intervista l’ho voluta riservare a Maria Teresa Orsi, professore ordinario di Lingua e Letteratura Giapponese presso la ex- facoltà di Studi Orientali dell’Università di Roma “La Sapienza” (oggi Dipartimento IISO, Istituto Italiano di Studi Orientali), traduttrice - tra gli altri - di opere di Kawabata Yasunari, Mishima Yukio, Natsume Sōseki, Sakaguchi Ango, Ueda Akinari, Nosaka Akiyuki e autrice di saggi sul romanzo poliziesco, sul kōdan e sul rakugo. Tra il 1978 e il 1981 scrive sulla rivista «Il Giappone» un saggio in cui analizza con acume e precisione la nascita e lo sviluppo del fumetto giapponese in tre fasi distinte:
- Il fumetto in Giappone: L’evoluzione del manga dall’era Meiji alla guerra del Pacifico («Il Giappone, XVIII»)
- Il fumetto in Giappone: Dal dopoguerra al trionfo del gekiga («Il Giappone, XX»)
- Il fumetto in Giappone: L’evoluzione degli anni Sessanta e le ultime proposte (Il Giappone, XXI»)
Non credo di sbagliarmi affermando che Maria Teresa Orsi è stata la prima accademica al di fuori del Giappone ad occuparsi di manga, anticipando studiosi e traduttori come Frederik L. Schodt (il volume Manga! Manga! The World of Japanese Comics viene pubblicato solo nel 1983).
Prima di tutto, la vorrei ringraziare per avermi concesso questa intervista. Ci conosciamo ormai da diversi anni e ci tenevo particolarmente a inaugurare “Le interviste” con Lei. Inizierei subito con le domande.
- Ai tempi del liceo trovai per puro caso una copia del suo volume “Storia del fumetto giapponese. L’evoluzione dall’era Meiji agli anni Settanta” (Musa Edizioni, 1998) e lo comprai d’istinto. Mi chiedo, come è nata l’idea di scrivere un saggio proprio sul fumetto giapponese nel 1978?
Probabilmente dal desiderio di condividere quella che era stata (o che mi sembrava fosse stata) una delle mie «scoperte» fatte in Giappone all’inizio degli anni Settanta: ossia che accanto alla cultura «alta» ne esisteva un’altra, vivacissima ricca interessante fruibile, dove non mancavano anche opere di ottimo livello. E poi all’Orientale di Napoli, dove mi ero laureata, mi avevano insegnato che non esistono argomenti di serie A o di serie B e che il fumetto (allora si parlava ancora di «fumetto giapponese» e la parola manga non faceva parte del lessico italiano) poteva tranquillamente entrare a buon diritto in una rivista («Il Giappone») dedicata alla ricerca scientifica e alla saggistica.
- Quali sono state le reazioni del mondo accademico nei confronti di un saggio con un tema così inconsueto per quegli anni?
Più positive di quanto potessi immaginare. Certamente qualcuno fra i miei colleghi più conservatori non sarà stato molto d’accordo, ma in generale ho ricevuto parole di incoraggiamento. E poi non dimentichiamoci che si era agli inizi degli anni Settanta e che già intellettuali come Umberto Eco o Goffredo Fofi avevano rivalutato molto il cosiddetto mondo della cultura popolare e di massa.
- Si ricorda qual è stato il primo manga che ha letto e quali sono state le sue impressioni? Aveva trovato delle differenza, ad esempio, con le produzioni «occidentali» ?
Quando sono andata in Giappone avevo letto già un buon numero di autori «occidentali» famosi: Schultz, Johnny Hart, Guido Crepax, Milo Manara, Hugo Pratt e Claude Bretécher e altri, tutti autori di grandissimo livello. In Giappone ho trovato una produzione vastissima, eterogenea, diseguale, e all’inizio non è stato semplice muoversi fra opere biecamente commerciali e altre originali e significative. Il primo manga che ho letto e che mi è piaciuto? Sandarabocchi di Ishinomori Shōtarō: questo autore oggi è ricordato soprattutto per i suoi manga di fantascienza e per Cyborg 009 e Kamen rider (credo), mentre Sandarabocchi rientra in un genere dove, secondo me, i manga giapponesi hanno dato risultati eccellenti: il racconto di ambientazione storica, in questo caso l’epoca Tokugawa, e un milieu di piccoli artigiani, commercianti, samurai senza padrone, artisti, oltre naturalmente alle abitanti dei «quartieri di piacere» come lo Yoshiwara. Per inciso, Ishinomori (che negli anni 70 ancora si chiamava Ishimori), nato nella provincia di Miyagi, è stato adottato come «eroe» locale dalla città di Ishinomaki, che gli ha dedicato un Museo del manga a forma di navicella spaziale (inaugurato nel 2001) dove erano tra l’altro raccolti molti dei suoi disegni originali. L’ho visitato nell’autunno del 2010; è stata un’esperienza molto interessante. Inoltre, lungo la via principale (tipica via di molte cittadine giapponesi, fiancheggiata da ākēdo) erano state collocate le immagini dei suoi eroi più famosi. Ishinomaki è stata una delle città del Giappone più colpite dal terremoto e dagli tsunami del 2011 e anche il Museo, che pure è rimasto in piedi, è stato seriamente danneggiato. Attualmente è chiuso, anche se si spera di poterlo riaprire entro il 2012.
- Una domanda d’obbligo riguarda la figura di Tezuka Osamu, il padre del fumetto giapponese moderno. Che ricordo conserva della lettura delle sue opere?
Le sue prime opere non mi entusiasmavano: troppo alla Disney, tanto per intenderci. Mi è piaciuto molto invece Hi no tori (L’uccello di fuoco), per la struttura che non segue un ordine cronologico ma converge tra due poli estremi, il futuro e il passato, verso il centro, che è rappresentato dal XX secolo. E poi mi è piaciuta l’ironia di alcuni personaggi come Hyōtantsugi. Tezuka resta comunque un pioniere che ha saputo svincolarsi dal modello americano per seguire una sua via originale e, se non fosse altro che per questo, merita il massimo rispetto. E’ stato inoltre il primo (o tra i primi) che ha proposto il modello di un personaggio dall’incerta identità sessuale (Safaya di Ribon no kishi), che sarebbe poi stato ampiamente ripreso sotto varie angolature.
5. Il mio interesse nei confronti di Kamimura Kazuo nasce quando per la prima volta ho letto il suo saggio e quelle righe che Lei dedica a Dōsei Jidai. In cosa si nasconde, secondo Lei, il fascino di quest’opera? Se non ricordo male, Lei era in Giappone quando Dōsei Jidai veniva pubblicato con enorme successo. Riflette realmente il mood di quegli anni? Ha avuto poi modo di leggere altre opere del maestro?
Sì, ero in Giappone. Dōsei jidai era stato preceduto da un altro manga, che in parte anticipava lo stesso tema: Akairo erejī di Hayashi Seiichi, che era però più intellettualistico e di nicchia. Dōsei jidai ha saputo sfruttare al meglio tutte le potenzialità già offerte da Akairo erejī, indugiando però sull’elemento romantico/sentimentale (peraltro senza vistose cadute nel melodramma del namidachōdai a tutti i costi), sull’erotismo, su una struttura narrativa più fruibile e una grafica forse meno sofisticata, ma certamente attraente. Credo che nel Giappone degli anni ’70, dove nonostante tutto la convivenza fra due giovani era accettata come preambolo ad una ragionevole conclusione matrimoniale ben accettata dalla famiglia, un manga come Dōsei jidai, che non si concludeva con l’ufficializzazione di un’esperienza prematrimoniale né con l’inserimento dei protagonisti nello schema familiare incoraggiato dal conformismo sociale, abbia avuto un’eco profonda. Dosei jidai, inteso non come titolo di un manga, ma come esperienza personale, aveva le carte in regola per diventare lo slogan delle nuove generazioni.
Di Kamimura ho apprezzato moltissimo anche Kikuzaka hoteru.
- Negli ultimi anni sta focalizzando la sua attenzione sul “fumetto per fanciulle” (lo “shōjo manga”). Quali sono le autrici che legge con più piacere, sia della vecchia che della nuova generazione?
Tra le prime certamente Yamato Waki (per ovvi motivi), Yamagishi Ryōko e Uchida Shungiku (anche se nel caso di queste due ultime autrici parlare di shōjo manga non è proprio esatto, visto che hanno abbondantemente abbandonato argomenti e immagini «adolescenziali» a favore di temi più inquietanti e adulti); tra le più giovani (o relativamente tali) mi piace Yazawa Ai (Paradise Kiss più ancora di Nana che negli ultimi volumi trovo troppo prevedibile) e mi incuriosiscono Kira, Anno Moyoko e (perché no?) Yamanaka Hiko e i suoi BL.
- Tra poco sarà disponibile per Einaudi la sua traduzione condotta dall’originale giapponese del Genji Monogatari (Storia di Genji - Il principe splendente) di Murasaki Shikibu, il classico per eccellenza della letteratura giapponese. Negli anni sono state realizzate diverse trasposizioni a fumetti di quest’opera nel tentativo, forse, di avvicinare e invogliare il pubblico (adolescente e adulto) alla lettura dell’opera originale. Mi vengono in mente le versioni di Akatsuka Fujio, Yamato Waki, Maki Miyako ed Egawa Tatsuya. Quali tra questi manga sintetizzano al meglio lo spirito dell’opera originale? O quale, in virtù del debole legame con l’ipotesto, fornisce secondo Lei una nuova visione (chiamiamola anche “rilettura”) del Genji Monogatari?
Su questo argomento vorrei scrivere, prima o poi, un saggio o un libro (e così rispondo anche alla sua domanda numero 10). Il più affascinante dei manga dedicati al Genji resta a mio parere quello di Yamato Waki, Asaki yume mishi. Trovo abbastanza noioso quello di Egawa, stimolante quello di Maki Miyako, carino quello di Akatsuka. Mi diverte la versione di Koizumi Yoshihiro, Maro,n?, dove Genji lo Splendente ha i lineamenti di una castagna. Ma di tutto questo ho parlato proprio nell’introduzione alla traduzione italiana del Genji monogatari.
- Quali sono i cinque manga che l’hanno particolarmente colpita, le sue “letture imprescindibili” che si sentirebbe di consigliare?
Bella domanda. Limitarmi a cinque titoli è quasi impossibile.
Ci provo:
1. Ninja bugeichō di Shirato Sanpei sicurissimamente. Resta un punto fermo nella mia esperienza nel mondo dei manga.
2. A modo suo, anche Berusayu no bara (ma SOLO l’edizione stampata, in 10 volumi, e non le successive riletture televisive) mi ha colpito, all’epoca. Dopo non l’ho più riletto e non so che effetto mi farebbe oggi.
3. Uno qualunque fra quelli di Tsuge Yoshiharu. Intellettualistico, raffinato, da manuale di psicanalisi.
4. Dōsei jidai di Kamimura Kazuo
5. Raccolgo qui in un unico esponente tutte le autrici di manga che ho citato sopra: Yamato Waki, Yamagishi Ryōko, Uchida Shungiku, Kira, Anno Moyoko, Yamanaka Hiko, alle quali potrei aggiungere anche Hagio Moto, Maki Miyako e Yoshinaga Fumi.
5 bis. Dimenticavo: anche Oishinbo e Kukkingu papa, all’inizio, mi piacevano molto. Oggi mi diverte Kinō nani tabeta? di Yoshinaga Fumi.
5bis bis. E poi c’è sempre il patriarca Mizuki Shigeru con i suoi mostri…
- In un interessante saggio dal titolo Waga manga (I miei manga, 1956), Mishima Yukio definisce il fumetto giapponese “un bisogno fisiologico per me necessario e indispensabile” e afferma di amare soprattutto quei manga che lui definisce “terribilmente osceni e terribilmente intellettuali”. All’interno di questo stesso saggio, Mishima lancia una provocazione: “Avere la pretesa di conoscere il romanzo da chi un romanzo non l’ha mai scritto! Dunque è impensabile comprendere il manga se non si è un mangaka!”. Eppure sembra che nell’ultimo trentennio, il confine tra letteratura giapponese e manga sia diventato sempre più labile: mangaka che scrivono romanzi e vincono prestigiosi premi letterari, scrittori che hanno più dimestichezza con il mondo della pop culture che non con quello della jun bungaku (“letteratura pura”). Cosa ne pensa a tal proposito? Qual è stato, secondo Lei, il peso rivestito dalla pop culture (nello specifico dal manga) nella formazione delle nuove generazioni di autori?
Sicuramente un peso molto consistente: le opere di Yoshimoto Banana o di Murakami Haruki rivelano uno stretto legame con tutto il mondo della pop culture e non solo del manga. Lo stesso vale per Takahashi Gen’ichirō o Hashimoto Osamu. Bisogna aggiungere però che queste sono generazioni ormai «di mezzo». Forse le generazioni ancora più giovani hanno a loro volta altri stimoli e altri modelli.
- Ci lasciamo con la classica domanda: progetti nell’immediato futuro che riguardano i manga?
Certamente un saggio sull’evoluzione degli shōjo manga (ma si può ancora parlare di shōjo manga? E che fine hanno fatto i redīs comikku?). E poi qualcosa sul Genji monogatari «tradotto» in manga, come le dicevo.
La ringrazio infinitamente per avermi concesso questa intervista.

Fantastica intervista. Interessante e stimolante. Stimo sempre più Maria Teresa Orsi e te. Bravo! :)
RispondiEliminaMi accodo a Nino per i complimenti!
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